I fantasmi di Trieste by Dušan Jelinčič

I fantasmi di Trieste by Dušan Jelinčič

autore:Dušan Jelinčič [Jelinčič, Dušan]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: Dušan Jelinčič; I fantasmi di Trieste; Bottega Errante; città; Trieste; Friuli Venezia Giulia; Venezia Giulia: guida a Trieste; guida; Joyce;
editore: Bottega Errante Edizioni
pubblicato: 2018-09-06T15:19:21+00:00


Il bagno dei sessi divisi

Dove sta il problema? Per noi che da tempo immemorabile frequentavamo il bagno alla Lanterna, meglio conosciuto come “el Pedocin”, era del tutto normale che le donne andassero da una parte e i maschi dall’altra. Certo, questa netta divisione ha un suo fascino un po’ morboso e bacchettone, ma la realtà è molto più semplice: a tutti va bene così.

Per me, ma probabilmente per tutti i triestini, la Lanterna era ben altro. Io dico Lanterna perché la conoscevo con questo nome, e soltanto in seguito imparai il suo nome popolare Pedocin, che potrebbe derivare dalle cozze – i pedoci triestini che lì si trovavano a bizzeffe – o dai pidocchi dei soldati americani del secondo dopoguerra, oppure dai chiodi che una volta i bagnanti portavano con sé per piantarli nel muro e usarli come appendiabiti.

Il Pedocin era ed è rimasto il vero bagno popolare triestino, nato all’inizio del secolo breve sotto l’aquila bicipite. Lo stabilimento in cui dimora ancora un po’ dello spirito del detto triestino Viva l’A e po’ bon, dove A sta per “Austria”, ma soprattutto e po’ bon, “e poi bene”, cioè lascia che sia, va bene così, che richiama l’atmosfera della famosa Fin che la barca va di bertiana memoria. Tanta nostalgia e paura del futuro, di guardarsi allo specchio per non scoprire i fantasmi nascosti dell’identità indefinita e indefinibile. Ma questi fantasmi sono gentili, perché non vogliono risposte e neppure le cercano. E allora ci si nasconde dietro la voglia di divertirsi e di lasciarsi morbidamente andare, tanto il tempo passa lo stesso e qualcosa prima o poi succederà.

I simboli del Pedocin sono tutti racchiusi nel murale che decora il muro esterno, di un azzurro tenue e sognante: ci sono Miramare, pesci, palombari, lische, polipi, cozze, belle ragazze, e anche una nave transoceanica, che voglio credere sia la Vulcania o la Saturnia, che faceva regolarmente rotta per New York; ci sono poi anche due signori pasciuti e visibilmente soddisfatti di sé. Quei signori che ridono di poco, ma si lamentano di tutto, soprattutto di cose insignificanti – una minestra fredda o troppo salata, l’autobus che ritarda di pochi minuti – ma stanno zitti davanti a ciò che è veramente importante, come il dramma della Ferriera che sputa sulla città molto più veleno dell’analogo mostro di Taranto, o quella nave che sulle Rive faceva sognare noi bambini quando la vedevamo partire per terre lontane, e faceva piangere i vecchi che sapevano che un addio è per sempre.

Da adolescente, per un periodo, andai al Pedocin tutti i giorni. Mi mettevo d’accordo con mio fratello e gli amici che abitavano nella casa attigua alla chiesa degli Armeni, quella dell’organo di Kugy, che adesso è fatiscente e ormai abbandonata. Prima li chiamavo con un fischio oltre il giardino a terrazze poi, per la gioia del vicinato, ci gridavamo il come e il quando, e dopo una mezz’oretta ci incontravamo al Pedocin.

Allora ero felice perché avevo la mia prima vera compagnia del rione e soprattutto perché così realizzavo il sogno della mia America: andare lì, dove finisce l’orizzonte.



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